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    Antonio Pietrangeli: fra testo e contesto nel cinema italiano

    La cinematografia italiana ha vissuto periodi splendidi e rigogliosi sin dalle sue origini, ricchi di sfaccettature singolari e talvolta distanti dalla realtà del vissuto quotidiano al punto da creare un distacco, quasi onirico, tra le figure proiettate e lo spettatore immobile e assorbito dalla bellezza della narrazione.

    La controversa figura femminile

    La donna nel cinema italiano è da sempre stata relazionata ai modelli classici letterari, teatrali, ai clichés di donne capaci di amare oltre ogni condizione, di madri dolcissime e condannate alla sofferenza. Dall’epoca delle dive del cinema muto, la figura femminile emerge come il baluardo della conservazione, colei che preserva la propria virtù della morale ottocentesca e si allontana da ogni forma di lotta sociale che, intanto, imperversa nel cinema oltre oceano.

    Gli anni in cui la Grande Guerra provoca shock in tutta Europa e rafforza le idee nazionaliste ed il valore della famiglia, il melodramma all’italiana si imprime di ideali veristi, di madri operose in narrazioni perlopiù drammatiche. Con l’avvento del regime fascista si impone una struttura codificata per generi, nell’ottica di servirsi del cinema per formare la nazione e far permeare l’immagine di una società pacifica e priva di conflitti.

    La grande stagione della commedia post-bellica non esclude la figura femminile dai propri schermi: sono gli anni d’esordio di Anna MagnaniElsa De GiorgiTitina De Filippo (Eduardo e Peppino) nei panni di donne evolute che tentano di mettersi al passo con le coetanee internazionali, fiere della propria identità italiana, diverse dal concetto politico di donna-madre imposto intanto nel sociale.

    L’idea di donna filtrata dal cinema è incoerente con la controparte reale: il recupero delle produzioni nel secondo dopoguerra vedono la donna italiana mantenere il proprio ruolo nella commedia farsesca e sentimentale, assumendo via via volti più drammatici e realistici che rispondo sempre meglio al bisogno di riappropriarsi di uno spessore psicologico più consapevole.

    In questo clima, la produzione italiana registra il periodo di maggior splendore, con una media di 200 film l’anno durante la decade 1950/60, tanto per citarne alcuni “La dolce vita” e “La ciociara“. Con l’invasione di Hollywood nel mercato italiano, nel 1955 vengono staccati ben 820 milioni di biglietti! Un record nella storia del cinema nazionale.

    In questa cornice la commedia italiana vive il suo periodo migliore, gli schermi si riempiono di volti nuovi, altri si assestano, aumentano gli esordi alla regia e si registrano innovazioni e sperimentazioni, dal documentario degli anni del boom economico, alla mescolanza di generi ed all’analisi più capillare di situazioni o di figure.

    La donna nei film di Antonio Pietrangeli

    Antonio Pietrangeli, regista romano reso celebre con “Io la conoscevo bene” (1965), affrontò la psicologia femminile «con la grande urgenza della ricerca, dell’esplorazione, della polemica e insomma il grande desiderio di verità» come Pietrangeli scrisse di suo  stesso pugno nella pubblicazione “Panoramica sul cinema italiano” del 1950. E continuava:

    «Il cinema attivo, (sia quello testardo, che non molla e vorrebbe sfondare anche le porte chiuse a doppio catenaccio; e forse anche l’altro, più duttile, per necessità o amore del lavoro a ogni costo) non è detto che abbia rinunciato alla speranza ».

    Antonio Pietrangeli

    Le donne dei film di Pietrangeli vivono l’angosciante e costante bisogno di ritagliarsi il proprio spazio nella società, un’autoaffermazione sofferta che implica un impegno giornaliero e, non farcela, significa perdere il senso di ciò che che si fa o che si vorrebbe diventare; si tratta di una lacerazione dell’essenza percepita di sé stessa, ciò che vedono riflesso nello specchio non è solo un bel viso ed un bel corpo formoso, ma il complesso albero di emozioni che compongono l’animo. Non riuscire nell’impresa implica il disorientamento, l’assenza ed il diretto subordinamento patriarcale di cui la società è intrisa. Ben oltre ciò che un uomo abbia mai rischiato.

    Antonio Pietrangeli ha dato spessore ad una figura che continuava a rimanere ancorata al passato, dentro e fuori lo schermo. Non si trattava solo di un fatto di costume quanto di una radicale e profonda rivoluzione interiore e nel cammino, da “Il sole negli occhi” a “Io la conoscevo bene“, si possono ritrovare alcune tappe di quest’evoluzione. Nessuna delle protagoniste di Pietrangeli è un’eroina, un animo puro e nobile come nelle favole, le donne dei suoi film sono figure reali, con pregi e difetti, vizi e peculiarità che le contraddistinguono, con un passato personale ad influenzare i singoli percorsi, ma tutte lottano e si divincolano per uscirne vittoriose.

    Il sole negli occhi: Celestina

    Esordisce alla regia con “Il sole negli occhi” (1953) occupandosi di donne tradite ed accusate ingiustamente, sotto richiesta diretta di Luchino Visconti, già suo amico e collega. La protagonista è Celestina, una giovane ragazza che nasce sotto il segno del neorealismo dal quale, però, si allontana quasi subito incarnando una figura dismessa e smarrita, assolutamente priva della carica erotica del divismo casereccio della commedia italiana, sino a quel momento.

    Irene Galter e Gabriele Ferzetti in una scena di “Il sole negli occhi”

    Celestina è una ragazza semplice ed ingenua il cui destino è segnato dagli incontri fortuiti attraverso i quali Pietrangeli mostra il modo di vivere e di essere delle giovani donne, sogni e sofferenze che si infrangono in un tentato suicidio. Una vita sul filo, tra gioie e dolori, delusioni e frustrazioni, giocando tra il comico ed il tragico che convivono, come un Giano bifronte, susseguendosi più o meno velocemente nelle opere successive.

    Nel quadro di impulsi sociali che muovono la figura femminile verso l’emancipazione, le donne di Pietrangeli si distaccano dall’universo immaginario maschile, non accettano pacificamente il predominio virile, ma continuano ad inseguire gli ideali di amore, matrimonio e maternità insiti nella feminilità, ma mai senza turbamenti o introspezioni psicologiche legate al vissuto ed alla critica di costume.

    La commedia popolare dai toni leggeri non trovava spazio fin’ora per certe riflessioni, ma con Pietrangeli invece emerge con l’amara delusione ed il disorientamento delle donne ancorate alla legislazione patriarcale ed al ruolo di madre del passato, intanto che l’evoluzione dei costumi ed il boom economico mutano la società circostante.

    Nata di Marzo: Francesca

    Jacqueline Sassard e Gabriele Ferzetti in una scena di “Nata di Marzo”

    In Nata di Marzo (1957) Francesca racconta un amore giovanile convolato a nozze con un architetto molto più grande di lei, una figura autorevole e rassicurante, un “bravu’uomo del Sud”, ma con il quale ben presto non riesce a comunicare.

    Affrontando il tema del divorzio e delle donne lavoratrici, tra le battute di Francesca troviamo « Le donne che lavorano non hanno sesso » o ancora « A una donna con un cervello in testa chiamarla “mogliettina” e darle un calcio in uno stinco è tutt’uno! » dichiarando apertamente il carattere ribelle ed indipendentista di una giovanissima borghese milanese.

    Nonostante i piani originari fossero di ambientare a Roma il film, Pietrangeli trova in Milano una contestualizzazione borghese specchio reale degli anni in corso, difatti Pietrangeli nel testo “Il castoro cinema” di Maraldi scrisse: «Essendo lui un architetto e lei una ragazza che tentando una esperienza di vita indipendente in una grande città, si scontra con la realtà di una organizzazione sociale che richiede nel lavoro una preparazione specifica».

    Ne viene fuori una sorta di “sophisticated comedy” con tanto di “happy ending” che scatenò non poche polemiche! Del resto, era la prova lampante di una forzatura imposta dalla produzione che, temendo le conseguenze problematiche che avrebbe scatenato un personaggio considerato “libertino” come Francesca, preferirono alla rottura del matrimonio, la scelta del finale struggente e l’aggiunta della suspense fu una trovata utile per conciliare le esigenze produttive con la poetica originaria del progetto.

    D’altronde, quale messaggio avrebbe filtrato una giovane donna capricciosa, bugiarda, divorziata e indipendente nel panorama bigotto degli anni ’60?

    Lo scapolo: Alberto Sordi e Nino Manfredi

    Forse per ragioni finanziarie, più che artistiche, Pietrangeli verte verso la commedia e nel 1955 sceglie Alberto Sordi e Nino Manfredi in “Lo scapolo“.

    Alberto Sordi e Nino Manfredi

    Si tratta di uno dei pochi progetti con protagonista maschile. “Alberto il conquistatore” – altro titolo con cui è noto il film – intreccia relazioni fugaci con giovani lavoratrici perché certo che la condizione lavorativa dell’universo femminile gli eviti di inciampare in donne con intenzione matrimoniali.

    È palese quanto all’indolenza ed alla pigrizia maschile si contrapponga il dinamismo ed il reale impegno professionale di ognuna delle donne adescate dal maschio italico borghese, tinteggiato in maniera comica. La rivendicazione di un’indipendenza femminile si può considerare un sottotesto che emerge nel finale, con il matrimonio di Paolo “incastrato” da una di quelle giornalaie, hostess, lavandaie, che ha sedotto ed abbandonato.

    Adua e le compagne

    Sandra Milo, Simone Signoret e Domenico Modugno in una scena di Adua e le compagne

    All’indomani della chiusura delle case chiuse, ad opera della Legge Merlin, quattro ex prostitute intendono aprire una trattoria fuori città come copertura per continuare a svolgere l’antico mestiere ed essere padrone dei propri affari. Seppure la legge affermi di garantire loro la pulizia di ogni pendenza legale e quindi una rinascita come cittadine, le difficoltà burocratiche le costringono a doversi fidare dell’avvocato Ercoli ed iniziare la sola attività ristorativa. Con il tempo la nuova condizione piace alle quattro donne ed il bisogno di riscatto si traduce in una reazione istintiva contro il ricatto di Ercoli, da prima benefattore ora padrone, ed il desiderio di indipendenza si traduce in clamore, tale da far intervenire la polizia. Il finale è amaro, vengono arrestate, private della licenza ed Adua ubriaca e distrutta torna a prostituirsi, sotto la pioggia, sul marciapiede, stanca chiude il film ripetendo di non farcela.

    La forza delle donne, gli sforzi senza risultati, è un progetto ambizioso che conferma l’idea che al Nord le donne riescano meglio a riscattarsi, che lì siano più moderne. Marilina, una delle compagne di Adua, vuole andare a Milano a sposarsi, la hostess di Paolo lavorerà a Milano, in un certo senso anche Dora in “La Parmigiana” (1963) segue l’ideale di progresso cittadino e fugge dalla campagna e dall’arretratezza radicata in cui è cresciuta, lasciando che gli eventi muovino i fili intanto che acquista pieno possesso del proprio corpo, che concede in cambio di benefits.

    Io la conoscevo bene: il capolavoro di Pietrangeli

    Stefania Sandrelli in “Io la conoscevo bene”

    Il tema non è la mancanza di moralità perché anche Adriana in “Io la conoscevo bene”(1965) come Dora, concede sé stessa ma lo fanno per sentimento, scegliendo gli uomini sulla base del proprio sentire. È proprio quell’apparente “vuoto a perdere” che contraddistingue Adriana e che “giustifica” il folle gesto finale.

    «Un vuoto che non è solo esterno, ma un accumulo di episodi che improvvisamente vengono in superficie. Non c’è nessun movente immediato»

    L’affetto del regista per le proprie protagoniste si traduce in quest’ultimo film con “la scelta migliore” per lei che, invece di soccombere alla società, compie un gesto dettato dalle plurime lacerazioni – come donna e come persona – subite nel tempo e liberamente mette fine alla propria vita, dopo aver gettato la maschera ed aver voltato le spalle alla società che non la considera, non la capisce e la lascia indietro.

    Un panorama femminile claudicante

    Attraverso la filmografia di Antonio Pietrangeli si delinea un panorama femminile che zoppica tra molteplici difficoltà, subordinate alla morale, alla legge, alla cultura, al passato, nel presente e senza una propensione ottimistica futura.

    Sono tutte donne che forti e concrete, figlie di Celestina, nate da quello studio neorealista approfondito nel tempo, sceneggiatura dopo sceneggiatura, servono da riferimento e modello di incoraggiamento per le donne dell’Italia di semprenonostante tutto. 

    Perchè c’è sempre da lottare e da conquistare, c’è sempre il bisogno di affermare la propria personalità, come donna nel contesto socio-economico degli anni Sessanta, in una società in trasformazione, ieri come oggi.

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